Due chiacchiere e una palazzina

Silvano si sistema i denti davanti mentre parla; tira via la ghiera dove i pochi rimasti sono stati attaccati da un dentista a buon mercato e poi se la rimette a posto per strada, senza badare a chi lo guarda.

“E così adesso ti occupi di mercatini?” chiede Renato, passato a trovarlo per fare due parole, dopo un lungo periodo di assenza.

Silvano annuisce. “Sì, vendo quegli oggettini di gesso che poi si bagnano col profumo per la casa, ci faccio anche un buon margine, pensa che a un euro ne vendo cinque pezzi e ci guadagno ancora!”

“E tua sorella come sta?”

“Ah, sta bene, ti avevo detto che vive nella casa dei miei, anche se è un po’ tutta da rifare… Si è presa un paio di stanze. Però che dirti, i soldi non ci sono e così la lasciamo andare in rovina ogni giorno un po’ di più”.

Renato si ricorda di quella casa: ci andava spesso da ragazzo, ci andava a trovare Silvano quando viveva ancora con i suoi genitori, ricorda che suo padre a quei tempi scolpiva il legno, faceva tutto da solo, i mobili per la casa, il corrimano delle scale, le suppellettili… Era una bellissima casa, a tre piani, con intorno un giardino enorme, pieno di alberi e nemmeno recintato, infatti non sapeva dire dove finisse e quali fossero i confini precisi.

La sorella di Silvano, Grazia, era sempre stata una gran rompiscatole, per un periodo aveva anche lavorato con loro al negozio, ma aveva sempre lamentele da fare sull’acqua fredda in bagno, sulle altre dipendenti, sulla paga, sulle scale a chiocciola troppo ripide, e così via. Silvano stesso non la sopportava, ma abbozzava a ogni screzio, non era tipo da prendere posizione facilmente, soprattutto con i parenti.

“E la palazzina sulla collina?” Renato ha uno scatto di curiosità verso quell’ulteriore possedimento della famiglia di Silvano, a volte ci passa davanti con l’auto mentre va dal commercialista, ma ormai anche quella costruzione non ha un aspetto troppo rassicurante.

stecchino“Sì, i dieci appartamenti”, Silvano ha tirato fuori uno stecchino e dopo esserselo passato tra i denti traballanti adesso lo tiene in bocca e lo fa penzolare verso il basso. “Sono tutti affittati, tranne uno”. Renato non si capacita proprio di come quei “dieci appartamenti” siano abitati, magari dati in nero, dato che non c’è un impianto di riscaldamento e la manutenzione è andata a farsi friggere da chissà quanti anni. Negli anni precedenti a volte almeno la metà di quelle abitazioni era sfitta, non si trovavano facilmente persone disposte a vivere in condizioni così disagiate, con i muri scrostati e gli spifferi che correvano sotto le porte di legno piegate dall’umidità.

Silvano si ferma e ci pensa un attimo, guarda verso l’alto sistemandosi gli occhiali. “Ma adesso c’è la crisi, arrivano gli extracomunitari, quelli che hanno perso il lavoro, hanno pochi soldi e allora l’appartamento lo prendono e ti confesso che pagano pure molto puntuali. Quel poco che gli faccio pagare, beninteso, in fondo mi fanno pure un favore a tenermi a posto quel palazzo che chissà forse a quest’ora sarebbe stato quasi da demolire. In quelle case si sente una puzza come di gruppo di adolescenti al sole”.

Renato annuisce e prima che possa tirare fuori qualche trito luogo comune del genere “dove siamo arrivati e dove stiamo andando”, Silvano riprende a parlare, mentre si sistema il cavallo dei pantaloni alzando il piede destro e quasi perdendo l’equilibrio.

Regimental_Blazer_Crest_2“Un giorno mi si presenta questo tizio, tutto acchittato, in doppio petto blu e cravatta regimental, ben rasato, profumato, sembrava un capitano d’industria. Sciorina titoli, lavori prestigiosi, incarichi di fiducia a favore di nomi potenti, soldi in banche svizzere. Però adesso che è da queste parti per un nuovo lavoro importante non vuole essere disturbato, non gli va di stare in centro in mezzo al caos e poi c’è l’ex moglie dalla quale vuole stare lontano per un po’, è stanco delle sue pretese e delle continue richieste di soldi. Così ci mettiamo d’accordo, gli fisso una pigione un po’ più alta rispetto agli altri, sai con tutte quelle garanzie… Gli dò le chiavi e ci salutiamo. Per qualche mese tutto bene, l’affitto arriva puntuale, mi telefona qualche volta ma per nulla in particolare. Poi qualcosa comincia a non quadrare. I pagamenti si fanno sempre più radi, a volte sbaglia la cifra, puoi immaginare, sempre in difetto. Gli telefono, qualche volta risponde, qualche volta no, poi più niente.” Silvano fa spallucce e fissa la cicca di sigaretta raccolta prima da terra che sta fumando, rivolgendo la brace verso di sé. “L’hanno trovato i parenti impiccato al lampadario, con la giacca blu e tutto. Però era in una posizione strana, in ginocchio, così la polizia ha messo i sigilli alla porta per fare dei rilievi, sono così lenti che non mi hanno ancora sbloccato la faccenda. Sembra che non avesse un quattrino, le amicizie importanti erano tutte millantate, non aveva quasi più nessuno, anche la storia della moglie era inventata. Che roba eh?” Si gira e sorridendo di sbieco guarda Renato che nel frattempo si è fermato con la bocca aperta e le mani in tasca. “Dai, ti offro un caffè”.

Sono arrivati sotto alla palazzina; una delle finestre ha un cartone al posto del vetro.

Per l’ultima notte

parole-nel-buioLa vita continua. Ma chi gliel’ha chiesto.
Apre un nuovo grande fratello, con nuovi concorrenti che parlano vanamente di se stessi. Gli do un occhio mentre leggo, ma in ogni caso m’incuriosisce.
Vorrei sapere perché, o meglio, mi chiedo come io faccia a interessarmi davvero a qualcosa. Ho un buco nero dentro che si allarga giorno per giorno, in certi momenti mi sento il viso spento come mai avrei pensato, come per la certezza che per me fosse tutto finito, come se non ci fosse più presente, né tantomeno futuro. Qualche volta vorrei addormentarmi con la certezza di non svegliarmi più, averne la consapevolezza mi regalerebbe l’ultimo momento finalmente felice della mia vita.foto buio
Una volta avevo frequenti scoppi d’ira. Gli scoppi d’ira sono terribili, insorgono all’improvviso, spesso non per ragioni valide ma si nutrono di pretesti, anche sottili, ma sufficienti a rompere un argine forte quanto uno stuzzicadenti. Controllarmi in modo ferreo era perciò fondamentale, in modo che quegli scoppi si fermassero nelle braccia, tramutandole in ciocchi di legno e il respiro in un ansito. Poi passavano, ma lasciavano il timore di un loro ritorno, perché se in una cosa brutta c’è un pizzico di piacere la rifarai senz’altro, senza apparentemente volerlo.
Molti riescono a vivere lo stesso dopo fatti tremendi, ma io non mi sento in colpa per questo, io semplicemente non ci riesco, forse non ci voglio riuscire più.
La questione non è solo che non trovo sostanza nei rapporti fatti solo di parole, non è solo che la vita mi pare sempre più spenta e inutile, ho qualcosa dentro di profondamente vuoto e solo. È un vuoto che continua, permane, ristagna, è come il nulla de “La storia infinita”, dove smetti di desiderare, di progettare, di pensare.
E poi devo dimenticare tanti, troppi dolori e non ci riesco, non posso parlarne altrimenti rischio di beccare prediche sul senso della vita o peggio lo sguardo impotente di chi non mi può aiutare.
Nemmeno piangere serve più a niente, nemmeno sperare di ricominciare.
Ricominciare da chi, da cosa, come?buio
Non è vero che la speranza sia l’ultima a morire, molto spesso è la prima e il brutto comincia proprio allora: quando non c’è più niente da sperare, da desiderare, per cui essere felice, nulla da aspettare, la vita diventa solo un digrignare di denti e una fatica immane.
Mi chiedo davvero perché viverla, a che scopo. Se lo scopo non c’è più, nemmeno per il gusto della stessa giornata, beh, faccio posto a chi invece di viverla ne ha voglia davvero.
Senza dignità non si può stare al mondo un minuto di più.
Del resto, a cosa mai serve fare foto ai bambini sorridenti nella culla, spesso nudi e paffuti e con le guance di pesca, se poi da grandi si diventa brutti e freddi e cinici?

Una giornata al mare

DSCN0528 Ora che le loro vite si sono incanalate in tristi matrimoni, chissà se ricordano il calore del sole sul viso nelle discese al mare d’estate, aspettando il bus con lo zaino in spalla. Il biglietto lo facevamo al bar della salita, stava all’angolo della strada principale, vicino alla fermata del bus, e noi fratelli lo chiamavamo così perché prima di entrare dalla porta a fili di spugna si percorreva una brevissima salita di cemento. Il bar però la domenica mattina era chiuso; quindi per poter fare il biglietto bisognava pensarci per tempo, almeno la sera prima. “Un biglietto andata e ritorno per il mare”, questa era la formula che apriva gli argini del desiderio di una giornata tra la sabbia, l’acqua cristallina e il sole. Il bus passava presto, alle sette e un quarto e chi non faceva in tempo poteva prendere quello delle nove e mezza, ma si sarebbe perso tutto l’incanto della spiaggia deserta delle otto, il mare liscio come una macchia d’olio che veniva voglia di bere d’un sorso, senza uscire mai.DSCN0529
Spesso si andava in gruppi corposi, si era fino in dieci, col panino preparato a casa ripieno di hamburger o fettina e le merendine in pacco multiplo da dividere tra tutti dopo pranzo. Facevo la richiesta a mio padre il giorno prima, ascoltavo prima il tono dei discorsi tra lui e mia madre, se sapevano di tranquillità allora mi avvicinavo e con voce flebile chiedevo: “Posso andare al mare domani?” e la domanda di rito che mi veniva rivolta era: “Chi siete? E quanti?” e alla mia risposta sui chi ci sarebbe stato ottenevo il permesso. In capo a qualche anno non ne avevo più bisogno, comunicavo solo “Domani andiamo al mare” e il discorso era finito, anche se la domanda sul chi siete non mancava mai.
Preparavo il mio panino appena alzata, volevo che assorbisse tutti gli umori della carne poco cotta e diventasse un tutt’uno tra mollica e crosta e carne e pregustavo il momento in cui, nell’addentarlo, avrei apprezzato la cremina formata dal sugo della fettina che mi vellutava il palato e me lo godevo fino all’ultimo morso. Il dopopranzo in pineta non era mai un sonnellino riuscito. DSCN0527L’intenzione di riposarsi c’era, per favorire la digestione del pasto e prepararsi al pomeriggio in spiaggia, ma c’era sempre qualcuno che non smetteva di parlare, allora ci si univa tutti alle chiacchiere, a quindici anni sono quelle che non finiscono mai e che hanno un’aura di assoluta importanza, soprattutto quando si parla di rapporti, di amicizia, d’amore come ci sembrava di conoscerlo. Oppure c’erano gli scherzi, le prese in giro bonarie, le lotte sugli asciugamani.
Il bus che ci riportava a casa arrivava di nuovo sempre troppo presto, ma c’era un’altra attesa da pregustare, quella per la serata dopo la doccia, a chiacchierare ancora fino all’alba sui gradoni dell’anfiteatro delle feste di paese.

Il fidanzato della zia e altri fatti

botero1

Mia zia da giovane era una donna normale, era magra, una bella ragazza. Non è stata così grassa come adesso fin quando non è morta mia nonna, dopodiché si è lasciata andare. Lei e mia nonna al massimo si rivolgevano la parola, mio padre non l’ha mai considerata perché era incapace a fare qualsiasi cosa. In casa faceva tutto mia nonna, poi quando è morta si è trovata in questa situazione: la casa è sempre sporca, lercia, sopra i mobili c’è uno strato grasso e nero che scoraggia il toccare qualsiasi cosa e si fa sempre da mangiare nella stessa pentola che spesso usa anche per il mangime delle galline.

Però una volta era una donna normale come poteva essere mia mamma a trent’anni, anche se si vestiva già in maniera abbastanza trasandata. Poi non uscendo mai… lavorava in una ditta dietro casa, un tappetificio, lavorava a una macchina, ci sarà stata oltre trent’anni. Noi ci salutavamo, non parlava molto e neanche io le parlavo tanto. Adesso altrettanto, la prendo in giro sul peso. E lei ride, che può fare.

È un bidone con delle gambone grosse, una bestia. Ogni tanto va a tingersi i capelli, se no li ha mezzi grigi/bianchi e mezzi marroni; quando li tinge se li fa biondi menopausa. Una particolarità: cambia sempre pettinatrice, perché ovunque vada, quelle pur di non farla tornare più perché ha un cattivo odore, le sparano su delle cifre allucinanti e lei così dice: ah lì vado pi’ nen… ma tu la vuoi una cliente che entra e fa scappare le altre clienti? Ma le pettinatrici saranno finite ormai, anche se gira diversi paesi per trovarne di nuove. Io immagino che quando la vedono arrivare si mettano le mani nei capelli e corrano ad aprire le finestre.

boter2

Aveva un fratello che è morto quando lei aveva forse una ventina d’anni. Lui aveva ventisei-ventisette anni. Mi ricordo che siam partiti tutti una domenica pomeriggio, tutti che piangevano, era la prima volta che vedevo una cosa del genere, mi aveva colpito abbastanza, ho visto le foto, c’era tutto il paese, tutti si conoscevano. Nelle foto c’è tutto il corteo funebre, il parroco, una volta si usava fare le foto ai funerali. Quando moriva qualcuno di giovane o importante.

Però le foto non posso prenderle, perché se mi vede infilarmi nella casa vecchia mi segue subito per vedere cosa vado a fare! Lì c’è tutta roba sua. La casa adesso è in pericolo di crollo, chissà magari crolla con lei dentro. Mio fratello voleva far arrivare una di quelle enormi bocce d’acciaio per demolirla mentre lei non c’è.

Quando era giovane aveva un fidanzato. Col fidanzato saranno stati insieme un paio d’anni, si chiamava Bruno, poi lui è partito militare, è andato al sud Italia e quando è tornato aveva una fidanzata che si era fatto lì, l’ha portata qua al paese e l’ha sposata e mia zia l’ha lasciata senza dire ne ah ne bah; mia zia non so se sapesse qualcosa prima che lui arrivasse. Una volta le donne del sud non vedevano l’ora di venire al nord a sistemarsi; lei da allora è rimasta sola, non ha voluto più nessuno, o forse non se l’è presa più nessuno e così è ingrassata a dismisura e oggi sembra una pazza.
botero3
Mia mamma con lei sono come cane e gatto, non si possono vedere, non si sopportano. Fanno feroci litigate per soliti motivi, mia madre vuol farla lavare a casa sua o usare la lavatrice e lei non vuole. Oppure mia zia esce di casa, va in paese ed esce con le ciabatte che usa in casa, anche in pieno inverno.

Una volta è successo che il vicino di casa a un certo punto era rimasto vedovo, una notte lei se l’è trovato nella camera da letto, aveva lasciato il balcone aperto e lui aveva scavalcato la ringhiera, lei si è messa a urlare e lui le ha detto non urlare, non urlare, vado via! Urla nen!! Vadu via! Lui voleva farsi una scopata con una vergine, non vedeva l’ora, ma già trovarla in mezzo al grasso dev’essere impossibile, poi figurati se si depila, è coperta di peli, dalle gambe alle braccia. Quando l’ho portata in macchina abbiamo dovuto tirare tutto indietro il sedile anche se era meglio toglierlo del tutto! Lei ha preteso di mettere un cuscino sotto il culo enorme e poi si è calata dentro la macchina e per farla sedere prima è entrata con la gamba sinistra, io l’ho dovuta tenere se no rischiava di sfondarmi il sedile, poi dopo che la gamba e la chiappa sinistra sono entrate, ha messo dentro la chiappa destra e la gamba destra sollevandola con due mani per metterla dentro. Allora io le ho detto: “sei entrata tutta? Quando poi arriviamo lì dove stanno facendo una casa ci facciamo tirare fuori dalla gru e ti facciamo depositare direttamente nel cortile”. E lei rideva.

Una volta l’aveva morsa un cane in bici, l’aveva acchiappata sul polpaccio, stava andando al mercato e faceva le strade secondarie passando dalla campagna, è passata davanti a una casa, c’era il cancello aperto ed è uscito un cagnotto che l’ha morsa, non gli è parso vero di vedere tanto ben di dio e l’ha morsa, sicuramente era un bastardo. Sono usciti anche i padroni e le hanno chiesto se le facesse male qualcosa e lei no, tutto bene, tutto bene, poi è venuta a casa e le faceva male la gamba e l’abbiamo portata dal dottore che ha ritenuto servisse una medicazione. Dopo abbiamo chiamato i proprietari della casa, sono venuti su con la macchina e l’hanno portata loro a fare la medicazione, forse non avevano nemmeno l’assicurazione, per questo si sono offerti loro.

Mia madre quest’estate mi dice: ti devo raccontare un fatto di tua zia, stavo sul balcone a sbattere i tappeti e ho visto tua zia che usciva di casa in piena estate con addosso una canottiera e un paio di mutande, attraversava tutto il cortile in quelle condizioni ed è entrata nell’altra casa, poi è uscita di nuovo ed è tornata a casa, lì intorno la vedono tutti attraversare il cortile mezza nuda con tutta quella ciccia spaventosa che si ritrova. Gliel’ha detto a mia zia e lei alza le spalle per dire chi se ne frega. Ci seppellirà tutti, poi con la stazza che ha non ha mai fatto nessun tipo di visita medica… nemmeno ginecologica, a parte che vorrei trovarlo il ginecologo che ha il coraggio di mettere le mani in quel posto.

Una volta l’hanno chiamata in municipio e le dicono signora lei si chiama Cupo Rita Benedetta, vuole chiamarsi Cupo Rita o il nome intero? E lei dice “il nome intero!” Così le hanno cambiato l’anagrafe. Così è tutto cambiato, il codice fiscale e tutte le dichiarazioni dei redditi che erano state fatte solo con Cupo Rita, è successo un casino.

Una volta ha mangiato 12 uova tutte insieme, ha detto che le aveva trovate, le galline vivendo allo stato brado vanno a fare le uova in posti impensati e lei le segue per vedere dove vanno a ficcarsi. Se non le segui dopo 15 giorni trovi 15 uova tutte insieme e lei ne ha trovate 12 e magari avevano già un mese e lei le ha mangiate tutte! Perché ha pensato che fosse meglio così.

Un viale pieno di sassi


Cosa facevo, dov’ero quando: domande ossessive, domande inutili e vuote, non degne di alcuna risposta.
Quel giorno fatidico e atroce, nel camminare dietro l’auto lunga e scintillante, mi guardavo i piedi. Sotto i piedi vedevo il selciato, tantissimi sassolini chiari che diventavano sempre più grandi. Sono convinta che se anche non avessi avuto le lenti a contatto la mia vista, solo per quel giorno, sarebbe stata perfetta e avrei visto i sassolini nitidamente tanto erano grandi, sempre più grandi e definiti. Ogni rumore era amplificato, ogni risata di chi non sapeva, insopportabile; così ho ripensato alle volte in cui sono passata indifferente, allegra o piena di pensieri accanto a un simile corteo e mi sono vergognata.
Mi sono sempre chiesta cosa succeda il giorno in cui chi ami scompare. Che direzione prendono i tuoi gesti, come celebri un momento così terribile, con quali pensieri, quali movimenti del corpo? Ho sempre pensato che in un giorno come quello tutto sarebbe stato diverso, anche il mio aspetto fisico sarebbe cambiato.
E invece no.
All’inizio è il terremoto, le viscere prendono mille direzioni, nessuna più è al suo posto; lo stomaco s’infiamma, le gambe perdono forza e non reggono più il tronco, la testa segue un netto percorso nell’irreale, nell’impossibile.
Poi, tutto si ferma.
Ti lavi.
Ti asciughi.
Ti pettini guardandoti allo specchio.
Magari mangi, detestandoti perché lo stomaco brontola e non vuole accorgersi di nulla: quindi il corpo funziona sempre nello stesso modo.
A questo punto si affollano i pensieri, inarrestabili: sensi di colpa, l’assurdo; accuse, l’assurdo; non sapevo nulla, l’assurdo; dove cazzo ero, l’assurdo.
Come rispondere a una telefonata delle 7:21 del mattino di un sabato faccia lo stesso effetto che lanciarsi da un aereo senza paracadute, prevedendo lo schianto ma non riuscendo a morire prima di paura, seppure sapendo di non meritare tanta benevolenza dalla sorte.
Infatti la sorte non ti viene in aiuto, ti lascia lì dove sei, intenta nell’inutile esercizio di contare tutti i sassolini del sentiero, sentendo i piedi sprofondarci dentro sperando che siano sabbie mobili, lasciandoti le mani incollate a quel legno come se avessero il potere di rilasciare un fluido salvifico che ribalti ogni cosa e riporti tutto alla normalità.
E invece non succede nulla lo stesso, il tempo non è più lo stesso, nulla sarà più uguale a prima ma nessuno lo sa e quel che il mondo saprà è che la vita continua, non chiedendosi come, per quanto, perché; non lasciandoti spazio, oltre il tempo prestabilito, per piangere o ricordare, dicendoti: ti serve uno specialista, se quel tempo si protrae per lui troppo a lungo.
Tutti sanno quel che è giusto per te, tranne te; tutti vogliono dire la loro su quel che provi e pensi, senza ascoltarti; tutti hanno una sentenza su tempi, luoghi e modi, tranne te. E’ facile trovare chi cambia discorso imbarazzato, pensando che distogliere l’attenzione dall’argomento sia uguale a cancellarlo, anche per te.
E’ così che si diventa soli come unica soluzione a tutto: puoi ridere ancora, lavorare ancora, mangiare ancora, lavarti ancora, stringere mani ancora. Fai tutto questo, con te da un’altra parte.

Il guardiano della porta

Sono in ritardo, l’appuntamento è alle 19.30 alla Cabina (noto ritrovo dei fighetti della cosiddetta Torino bene), mi chiedo ancora perché io abbia accettato, ho sempre detestato le partite di Torneo, ci sono sempre tensioni e molto spesso finiscono in rissa ma non potevo dire di no, hanno bisogno di me, hanno bisogno del portiere. Mentre guido mi ritornano in mente le prime partite di calcio a Corio nel campo da tennis abbandonato coperto di ghiaia di fianco a casa. Ero il più piccolo e si sa che il più piccolo se vuole giocare sta in porta, soprattutto se non ha un piede sopraffino come me, ma ero portato per il ruolo, ho sempre avuto doti acrobatiche e il coraggio necessario. Da subito i più grandi mi contendevano per farmi stare lì, da solo in mezzo ai pali per impedire agli avversari di gioire per un gol ma soprattutto per impedirgli di vincere. Il ruolo che mi ha scelto è l’anti calcio, in questo sport si gioisce per fare gol mentre io godo nell’evitarlo: per un salvataggio sulla linea oppure quando ipnotizzo un attaccante che si presenta solo davanti a me e pensa che appoggiare la palla in rete sia soltanto una pratica. Ma non è così, ci sono io a sbarrargli la strada. Queste parate sono la mia specialità, ho la spregiudicatezza e il coraggio sufficienti anche mettendo a rischio la mia incolumità. Ricordo ancora quando un attaccante mi ha rotto un dente prendendo a calci la mia faccia non trovando il pallone che gli avevo fatto sparire dai piedi. Mi è costato caro, ma ne valeva la pena.

Sono arrivato in tempo, ci sono tutti, mi ringraziano perché gli tappo il buco e non lesinano frasi adulatorie sulle mie capacità, non m’incantano, è il solito rito che premette che sarà una partita fondamentale per il loro torneo.

Arriviamo al campo, è a Nichelino, è adiacente a una Chiesa di fronte al mobilificio Granato. E’ novembre, fa freddo, il campo è in terra, male illuminato, una rete separa una porta da una piccola tribuna formata da qualche panchina. Gli spogliatoi sono spartani, è già tanto che ci sia un appendiabiti, mattonelle marroni per terra e docce rotte e sporche. Non ho un rito particolare prima delle partite. Mi dà la carica pensare alle parate dei miei idoli, Schmeichel, Preudhomme, Pfaff, Marchegiani… Indosso la maglia da portiere del Toro con il numero 1. L’arbitro entra nello spogliatoio, fa l’appello e fa il solito discorsetto sul fair play, si sa che non conta nulla, appena si entra in campo ci si dimentica di tutto e si pensa solo a prevalere sull’avversario.

Uscendo dagli spogliatoi incrocio gli avversari, non hanno le facce pulite come le nostre che arriviamo dai quartieri ricchi della città, è gente di strada. A sostenerli c’è un gruppo sparuto di tifosi, proprio come dei veri ultras con i volti nascosti dalle sciarpe e dai cappucci delle felpe. A bordo campo hanno le loro fidanzate a sostenerli, un gruppetto di ragazzine che li incita a spaccare le gambe a questi cabinotti figli di papà. La premessa non è delle migliori, anzi. Perdiamo il sorteggio, il primo tempo lo gioco con i loro tifosi alle spalle, solo una rete mi divide da loro, a inizio partita accendono i fumogeni per poi lanciarli in campo a poca distanza dai miei piedi. Li guardo, li ammiro, noi non abbiamo nessuno che ci supporti, men che meno le nostre fidanzate che considerano il calcio uno sport noioso e per plebei, appunto.

Inizia la partita, cerco di individuare subito l’avversario più pericoloso, mentre un tifoso cerca di distrarmi offrendomi droga nel caso sia disposto a far passare qualche gol. Eccolo il più pericoloso, è il numero 9, si vede che gioca in una squadra, ha un buon fisico e i movimenti giusti. Il nostro difensore che l’ha preso in consegna avrà una serata dura ed io con lui. Entro in clima partita, la prima parata è un’uscita alta facile in largo anticipo sul numero 9, appena afferrata la palla gli rivolgo qualche complimento per cercare di allentare la sua concentrazione e renderlo meno pericoloso. Non funziona, figuriamoci se un figlio di papà lo può fregare con questo trucchetto da principiante. La partita procede per un quarto d’ora senza particolari pericoli, noi siamo assolutamente inconcludenti là davanti, si gioca prevalentemente nella nostra metà campo. Improvvisamente la partita s’infiamma, prendono il sopravvento, faccio un bella parata per prendere un tiro rasoterra, riesco a mettere la palla in calcio d’angolo. Nel successivo corner esco di pugno per allontanare la palla dalla mia area. Durante l’intervento qualcosa mi colpisce al costato, cado male sbilanciato dal colpo ricevuto. L’arbitro fischia il fallo, alzo gli occhi e vedo il numero 9 che mi guarda con un sorriso beffardo, cerca di intimidirmi, un portiere che ha paura è un portiere inutile.

Loro giocano meglio, sono più squadra ed io cerco di rinfrancare i miei urlandogli di non mollare, di lottare su ogni pallone e di metterci il cuore. Non serve, arriva un cross in mezzo, il mio difensore perde la marcatura del numero 9, esco di nuovo di pugno come l’azione del calcio d’angolo, sbaglio il tempo e lui appoggia comodamente la palla in rete. E’ gol, siamo sotto per colpa mia. Solo i portieri sanno qual è il peso che si ha sulle spalle dopo una situazione simile, può essere l’inizio della fine, il contraccolpo psicologico può compromettere l’intera partita e il suo esito. Mentre raccolgo la palla in rete, il tifoso che poco prima mi offriva l’hashish mi rivolge la frase: “Bravo portiere, continua così”. Sono solo in mezzo agli avversari esultanti, i compagni che mi guardano in silenzio, i tifosi avversari che festeggiano.

Palla al centro, si ricomincia, mi rianimo, cerco di dare coraggio ai miei, ma siamo sotto shock. Neanche passato un minuto mi ritrovo di nuovo il numero 9 con palla al piede solo davanti a me. Tira a mezz’aria alla mia destra, con un riflesso felino ci arrivo, ho fatto il miracolo, siamo ancora a galla, urlo al cielo stringendo i pugni dandomi la carica. Le pacche e i complimenti dei compagni arrivano puntuali, sanno che la partita sarebbe stata chiusa fosse entrato anche quel gol, cerco lo sguardo del numero 9 mentre il pubblico mi insulta, non lo trovo, mi evita.

La squadra, rinfrancata, incomincia a giocare a calcio, prendiamo fiducia e in qualche modo riusciamo a pareggiare alla fine del primo tempo. Un tiro, un gol, percentuale del 100%. All’intervallo la partita è pari, non lo meritiamo ma va bene così.

La partita ricomincia con loro all’attacco, un altro cross alto per la testa del numero 9, questa volta esco deciso urlando: – mia! – con un tono che fa capire che nulla mi può fermare, mentre salto mi proteggo con il ginocchio e stavolta non sono io a subire il colpo al costato, non c’è fallo, il portiere si può proteggere durante l’uscita. Lo aiuto a rialzarsi, lui non proferisce parola ma dai suoi occhi capisco che ho ottenuto finalmente il suo rispetto, mi riconosce come avversario. Non serve a molto, poco dopo vengo trafitto dal gol del 2 a 1, questa volta sono in due, non posso farci niente. Loro improvvisamente smettono di giocare, difendono il risultato, rimango di conseguenza inoperoso anch’io. Stiamo spingendo con la forza dei nervi alla ricerca del pareggio, all’improvviso in una mischia nella loro area l’arbitro fischia un rigore a nostro favore, non chiedetemene il motivo, non vedo nulla da questa distanza. Pareggiamo. Mi sembra incredibile, manca una manciata di minuti e siamo sul 2 a 2. Il loro pubblico non ci sta, non può accettare che questi figli di papà escano imbattuti dal loro campo. Una fidanzata incomincia a insultare uno dei nostri, lui non ci sta e le risponde, vi faccio immaginare le scintille in campo tra lui e il fidanzato di questa mentre la gallina incita il suo uomo a difendere il suo onore. Io sono tranquillo, dietro di me c’è il muro, nessuno che mi possa deconcentrare, devo solo pensare a non farmi più fare gol.

Manca poco, pochi secondi alla fine di questa partita ma ci complichiamo le cose, facciamo fallo al limite della nostra area, proprio allo scadere del tempo. Dispongo la barriera per coprire la parte di porta alla mia destra, l’area è affollata, sarebbe sufficiente una piccola deviazione per provocare l’irreparabile, l’arbitro fischia, vedo partire il pallone, è un tiro potente a mezz’aria alla mia sinistra, mi distendo e con la punta delle dita ci arrivo, riesco a deviarla fuori dal campo! Esulto come se avessi segnato un gol, i compagni mi abbracciano, l’arbitro cessa le ostilità, è finita!!! Tra gli insulti della gente raggiungiamo gli spogliatoi, siamo felici come se avessimo vinto la partita, sotto le docce i miei compagni ancora carichi di adrenalina ripercorrono la gara con la memoria aggiungendo commenti alle azioni che li hanno visti protagonisti; io li ascolto seduto su di una panca, sono il portiere, sono solo, in fondo delle partite di che cosa ci si ricorda? Dei gol.

Nebbia

Ti guardo allontanarti nel buio dei lampioni fiochi, la tua andatura storta, come quella dei cani quando corrono.

Mi hai appena salutata con due baci sulle guance, come un parente. Non hai cercato di abbracciarmi, anche se eravamo soli, hai scherzato e parlato di lavoro.

Tutte le volte che hai capito che mi stavo allontanando mi hai ripescata con parole suadenti. Ti accorgi che mi stai perdendo, mi riacchiappi, mi accarezzi, poi ti rilassi nuovamente.

“Quando ti fai riparare le gomme?” mi hai chiesto, parlando della mia bici. L’aria era bagnata, ti ho chiesto distrattamente se piovesse, lo sguardo di sbieco e un mezzo occhio su di te. “Ti affiderei i miei figli ad occhi chiusi” hai detto oggi, e io stupida “grazie!” accorgendomi con un secondo di ritardo che non mi hai detto “li farei con te”. Troppi tempi sbagliati in questa storia, troppe corse per non perdere il treno che invece era già partito, passi nella stessa direzione e poi deviazioni improvvise.

Mentre mi saluti sorridi, squilla il tuo cellulare, è lei che ti chiama; mentre rispondi mi dici “buona serata” e poi ti giri di spalle. La nebbia sfuma i tuoi contorni mentre cerco di indovinare ancora per un attimo la tua figura che si allontana indefinita.

Nella cornetta esclami “sto uscendo!”.

Mi hai già dimenticata.

 

Solo

Ora che sono dentro questo locale mi chiedo perché io sia arrivato fin qui, a quale scopo. La scommessa è durata lo spazio di un attimo. Il tempo di dirsi: il primo che ci riesce vince. Ma poi cosa vince? Questo non ce lo siamo detto. E le scommesse non valgono se non si decide il premio. Forse il premio è la possibile preda, tra noi non c’è stato bisogno di spiegarlo, ma dev’essere una preda difficile, una che non sia strafatta o ubriaca, o che palesemente non veda l’ora di trovare uno che se la faccia senza complimenti, senza parole. Quella infatti non vale. Meglio una complicata, una che quando la guardi giri gli occhi da un’altra parte e che alle prime domande nemmeno ti risponda. Ancora meglio, che sia accompagnata da qualcuno: marito, fidanzato, amico intimo che ne so. Deve arrivare ad avere il dubbio di quello che sta perdendo e cosa succede se lo perde. Certi treni passano una volta sola, è questo che deve pensare. Poi ci penserò io al resto. Abbiamo un cenno concordato che il vincitore farà all’altro, il primo che lo fa può uscire col suo premio senza dovere spiegazioni, senza parole inutili. Poi ai racconti eventuali ci penseremo domani. Lui fa il gentiluomo però, dovesse vincere sono sicuro che non mi racconterebbe nulla, nemmeno com’è “sottopanni”, come si dice a Roma. Ci passo fin troppo tempo in quella sporca città, in fondo però mi piace, vado lì e faccio capire a tutti quanto sia meglio di loro, con quell’accento sguaiato che non li puoi mai prendere sul serio. Però lì ci sono i soldi, e tanti anche. Ma spettano a me. E loro lo sanno che mi spettano, quindi non battono ciglio quando me li devono dare. Non faccio neppure tanta fatica. Qui dentro invece mi sembra di fare davvero molta fatica, c’è caldo, questo bicchiere è già vuoto, ne chiedo un altro così mi avvicino al bancone dove ci sono quelle più annoiate, queste bisogna capire se vanno bene, se sono lì perché nessuno le invita o se sono solo in attesa (finta) di qualcuno che sta tardando. Non ci vuole molto a capirlo. Ma poi, sarà facile, già lo so. Lui è lì che si muove, lo scorgo appena in questo misto di buio e luci violente e improvvise. La musica è alta, troppo alta, c’è chi si dimena stupidamente come se non avesse un futuro. Io un futuro ce l’ho e ho avuto finora le palle per costruirmelo. E che nessuno mi venga a dire il contrario, lo sanno tutti che lì la baracca la tengo io, è chiaro, e chi non si adegua può anche andarsene… alle mie condizioni ovviamente. Faccio tutto alle mie condizioni. Le persone marciano a dovere, anche se ogni tanto è necessario riprenderle per bene e per quanto sia una gran rottura di coglioni lo devo fare. Poi lo so che alle spalle me ne dicono di ogni tipo. Uno l’ho beccato così. Nemmeno tra di loro si sanno proteggere, che massa di inetti. Basta schioccare le dita che qualche pecorella esce dal gregge e mi viene ad informare per bene di quel che accade. E lì a quel punto è compito mio semmai essere anche magnanimo e far rientrare l’emergenza. L’importante è che sia passata una bella dose di strizza nel culo di questa gente, perché devono sapere che non scherzo e che la prossima volta potrebbe essere l’ultima. Guardalo, ora sta ballando, chissà che crede di fare così, è un metodo vecchio, anche se spesso sembra che alle ragazze piaccia. Le guarda in un modo che le inchioda dove stanno, le fa passare dalla paura al dubbio all’eccitazione in un attimo. Poi però le abbandona. Le lascia lì a chiedersi se non se lo siano sognato. Io lo so che non se lo sono immaginato, ma loro no, è quello il dubbio più grande. Anche se non capisco che gusto ci sia venire in un locale ad accendere qui e là qualche fuoco e poi lasciarlo bruciare in solitudine andandosene a dormire. Io se vinco prendo quello che mi spetta. E il fuoco lo consumo fino alla fine, finché non rimane nemmeno la brace. A scuola ero uno che piaceva, spesso mi bastava un sorriso per portarmele a casa, ero un leader nato, questo lo so non solo perché me lo hanno detto. Uno se lo sente dentro quando è così. Poi se a volte posso sembrare più duro del dovuto è solo il ruolo che me lo richiede che cazzo, lo so anche io che se muore tuo padre vorresti startene a casa per un pò. Però il dovere chiama e io devo richiamare. La concessione se viene fatta va anche apprezzata, ma io tanti grazie non ne sento. Guardalo lì, continua ballare, sembra che non voglia fermarsi su nessuna, ma se fa così non ha vita lunga qui dentro. Anzi al contrario, avrà vita fin troppo lunga perché continuerà a girare come una trottola senza concludere niente, mentre io starò già dormendo dopo la doppietta. Era il mio uomo di fiducia quando l’ho preso lì dentro. Tanto di fiducia che qualcuno ha storto il naso chiedendosi perché. Perché? Nessuno aveva il diritto di saperlo, quel che decido io si fa e lui per me andava bene. Però pensavo che restasse docile e imparasse le cose come le dicevo io, invece fa di testa sua e certe volte m’incazzo proprio anche se sembra che non gli faccia effetto. Con lui non fa effetto, non rientra nei ranghi come gli altri, in effetti non è uno che che si ritrae come vorrei, non sta nelle righe anche se ha fatto sto cazzo di militare di cui si vanta tanto. Vuole fare come dice lui. Ma non ha capito che deve fare come voglio io. Ma ci riuscirò prima o poi a fargli cambiare idea. Questa sembra adatta, mi guarda di sfuggita come se volesse evitarmi, ma io lo so che non aspetta altro che mi avvicini.

Le donne son proprio troie anche se vogliono sempre dimostrare il contrario. Nessuna esclusa, proprio no. Basta poco a volte e te lo dimostrano subito. Qualcuna invece è un pò più resistente, bisogna oliare meglio, ma io pazienza ne ho da vendere. Ho sempre il polso della situazione, so sempre di sembrare sicuro di tutto quello che sto facendo. Se non ti mostri sicuro come fai a dare l’esempio? E non c’è nemmeno bisogno di fare la voce grossa, bastano i gesti e lo sguardo. Con lo sguardo faccio capire molte cose. Fisso dritto negli occhi, non c’è bisogno di altro molto spesso.
Sembra che stia cedendo, adesso è il momento di sferrare l’attacco finale, deve capire chi decide qui dentro. Lo sanno sempre le persone che sono io a decidere. Lui è sempre lì che si muove, ne ha due o tre attorno, crede di aver in pugno la situazione, ma non sa che io invece ho già concluso. In fondo poco importa che la notte non riesca a dormire, che mi mangi le mani dall’ansia e che la mia pelle sia grigia come quella di un vecchio e che lei la maggior parte delle sere si giri dall’altra parte come se non ci fossi. Poco importa che il mio entusiasmo a volte sia solo mio e che c’è chi mi segue di malavoglia pensando che sia un fatto ben celato. In fondo conta il risultato e io risultati ne porto. Che m’importa pure di questa stronza che chissà cosa si è messa in testa. E che m’importa del cenno, della scommessa. Ma non deve sapere che faccio come lui, che volto le spalle e vado via senza portarmi il trofeo a casa. Ora non lo vedo più, è il momento migliore. Ti saluto amico, me ne vado da solo. Da silenzioso vincitore.

Il cane randagio è morto

Sono così.. vorrei cambiare… Ma non posso, sono così, prendere o lasciare.

Questo è stato un weekend di riflessione e come spesso accade mi sono sentito solo in mezzo alla gente, non sono l’unico a cui accade ma poco m’importa.
Tutto inizia da una cena da Enk, amico storico, lui è la classica persona che dice da sempre che vuole una relazione stabile con una ragazza ma poi se le scopa tutte… credo che ognuno di voi possa essersi fatto un’idea del soggetto. E’ alto, belloccio, curato e benestante, ha una bella casa in una zona prestigiosa di Torino, insomma uno scapolo d’oro. Unico difetto: un fare da commerciale.

Siamo a cena in 5, due fratelli e una fidanzata dei due, Enk ed io. La serata scorre veloce tra discorsi futili, sullo stile Hilary Blasi, Francesco Totti e Fabrizio Corona, vino a fiumi e leccornie preparate dal padrone di casa con cura. Osservo i due fidanzati con lo snobismo che mi contraddistingue e penso tra me e me che sono persone “semplici” ma felici… lei è una bella ragazza ma come direbbe Venditti un frutto periferico, lui arriva da un paese di montagna dell’alta Val Susa, sono lavoratori, onesti e non si fanno mille paranoie per come appaiono in pubblico e se devono dire una grezzata la dicono senza tante storie; non mi soffermo sull’aspetto fisico di lei perché è uno schianto ma l’occhio da predatore viene meno di fronte alle fidanzate di conoscenti ed amici.

Le intenzioni di Enk e del fratello “spaiato” sono bellicose per il proseguimento della notte: andare a ballare in discoteca e “sdelirare”, ne sono al corrente sin dall’inizio e assolutamente d’accordo ma mi sento strano, una strana nuova sensazione mi pervade.

Siamo rimasti in tre, la coppia è andata a casa, siamo al guardaroba, non c’è tanta gente, una ragazza che lavora nel locale ci ricorda che è San Valentino e ci da un numero a cui corrisponde una ragazza, me lo infilo in tasca, ho sempre detestato questo genere di giochi, soltanto gli sfigati hanno bisogno di queste cose per conoscere qualcuno. Sto aspettando che la guardarobiera prenda il mio giubbotto e un tipo mentre si sta togliendo la giacca mi urta tre volte, mi accorgo di essere nervoso, vorrei prendere una stampella, spaccargliela in faccia e chiedergli se non sia in grado di spogliarsi senza rompermi i coglioni. Mi controllo e finalmente entriamo, mi accorgo subito che non solo è San Valentino ma pure Carnevale, mi si stagliano di fronte le sagome di numerose persone vestite nei modi più assurdi su cui per il momento non mi soffermo: voglio un drink, Vodka Redbull ovviamente.

La musica incomincia a scaldarci, Enk si toglie la maglia e rimane in camicia, la porta sbottonata, molto sbottonata per far intravede il petto, salvo poi chiedermi tutto il tempo se non sia eccessivo, sorseggio il mio cocktail, incomincio a guardarmi intorno e le mie gambe incominciano a muoversi a tempo, nel frattempo David cerca di attaccare bottone con tutte le persone di sesso femminile che gli si presentano di fronte, non riesco a non farglielo notare e lui si fa una risata.

Il nervosismo non mi abbandona, vedo conigliette che sembrano bugs bunny, arpie travestite da gattine e maschietti in calore che cercano di mettere il loro uccello in qualsiasi buco. In questo desolante panorama attirano la mia attenzione un paio di ragazze, che sono esattamente l’una il contrario dell’altra.

La prima avrà 25 anni al massimo, alta, gran fisico, magra con il seno prosperoso, ha una minigonna giro passera con dei collant spessi, una maglietta con uno scollo a barca che fa capire ma non vedere, il viso fresco, giovane, l’espressione di chi ha tutta la vita davanti, è insieme a 5 amiche tra cui lei è la più bella. Ha l’aria di chi si annoia, il nostri sguardi si incrociano diverse volte, è seduta, maliziosamente si sfiora il decolté… può far uscire di testa chiunque lì dentro, le lancio uno sguardo di quelli penetranti, le sorrido e da quel momento in poi la ignoro per tutta la serata.

Mi accorgo di una ragazza bruna, non più giovanissima, i segni dell’età sul volto la tradiscono, non è molto alta, indossa dei jeans che porta dentro a degli stivali da motociclista, una maglia nera attillata che rivela qualche rotolo e di conseguenza qualche chilo di troppo. E’ in una compagnia di una decina di persone, ma anche lei non sembra divertirsi, balla quasi svogliatamente ma mi guarda in modo insistente. Non cerca di colpirmi con qualche movimento sexy, mi guarda e basta.

Non sono spensierato, mille pensieri mi balenano in testa, mi sento fuori luogo come un pesce fuor d’acqua, nel frattempo Enk e David si danno da fare, ballano, si scatenano, io no… non ce la faccio, è strano per me, quella che sto vivendo l’ho sempre considerata una di quelle serate ideali, spensieratezza, alcool , musica e belle donne da guardare ma non toccare. Mi siedo, dopo pochi istanti mi si siede accanto la seconda ragazza, mi è vicina, molto vicina, non mi parla, non le parlo. Due maschietti con i numeri di cui ho parlato all’inizio l’avvicinano con la scusa di vedere il suo, lei lo prende e lo verifica, non coincide, istintivamente mi frugo nelle tasche, trovo il mio talloncino e lo butto per terra con un gesto teatrale, a quel punto lei mi chiede che numero fosse il mio, non coincide con quello che ha lei in mano, non riesco a dirle null’altro, lei lo stesso, nel frastuono della musica della discoteca tra di noi si alza un silenzio che urla, lei sente che io non sono tranquillo e io percepisco il suo malessere, stiamo comunicando seppur senza parlarci.

Improvvisamente la musica smette di suonare, il dj annuncia uno spettacolo di danza del ventre, una culona prende a ballare, si muove bene, è sexy e veramente brava… mi volto verso la bruna e le dico candidamente che se avessi incontrato per strada la ballerina non l’avrei degnata di uno sguardo. Mi guarda male ma ha capito perfettamente cosa intendo, forse è confortata dal fatto che nonostante abbia fatto quell’affermazione io stia parlando con lei ma non ce la faccio più, la saluto e le auguro buona serata, faccio lo stesso con i miei amici. E’ ora di andarsene.

Sono in macchina, i pensieri si rincorrono, dalla vita voglio tutto, ma non posso avere tutto, si devono fare delle scelte, in questo lo scorrere dei giorni è democratico con tutti gli esseri viventi della terra, tutti fanno delle scelte e tutti ne pagano le conseguenze o traggono dei benefici per aver fatto quelle giuste. Una cosa ho capito: non posso pretendere che la mia passionalità sparisca, che i miei conflitti interni finiscano da un momento all’altro, mi lacereranno sempre dentro, la mia sensibilità mi farà sentire tutto come se fosse la prima volta e tutto amplificato, ma adesso lo so! E invece di disperarmi per questo ne sono felice.

Tra vivere ed esistere c’è una bella differenza. E io vivo.

Veronica non urla

Veronica fa la segretaria e pensa che, se le segretarie esistono, vuol dire che esistono persone che si sentono tali, che si sentono di obbedire a tutto, dire sempre sì, lo faccio subito, dimenticare se stesse, diventare dei robot esecutori.

Io non vorrei essere così, ma ho una gabbia fuori e invece dentro mi sento solare, con una voglia pazza di ballare, di scherzare giocare cantare con tutti e invece ho fuori una corazza d’acciaio piena di bulloni che non riesco a svitare, tutti arrugginiti, mi costringono a pensare le mie cosce debordanti il sedile della sedia, oppresse, strette tra abiti che non mi appartengono.

Veronica pensa che dopo la parentesi universitaria ha voluto tornare a sentirsi una nullità, a sentirsi nessuno. Pensa di aver voluto tornare a sparire, a non nutrirsi più di complimenti sul suo operato, se non su cose che giudica ridicole.

Il mio cervello si è zittito? Tutto si è zittito in me, non mi esce più la voce. Quando ho la pancia piena, che scoppia, mi sento perdente, ma almeno mi conosco, torno a una sensazione nota. Tutto deve essere pieno perché io finga di stare bene, la dispensa, il frigo, la casa, l’armadio, la borsa, tutto pieno. Ma è un “bene” che mi schiavizza.

Veronica si ricorda di un paio di pantaloncini che metteva a 13 anni, bianchi corti con delle figure stilizzate di donne disegnate sopra, come dei figurini per la moda. Le piacevano tantissimo, ma sua madre una volta le aveva detto che quei pantaloncini erano “indecentini”. Lo aveva detto mentre li stirava, con la testa bassa: “a tuo padre non piacciono tanto questi pantaloncini… non sono un po’ indecentini”? Lo aveva detto anche quando aveva otto anni e aveva già un po’ di seno appena accennato, allora metteva un costume a due pezzi. Ma anche quello era indecentino.Veronica pensa che la sessualizzazione alla quale è stata sottoposta da sua madre sia stata precoce. Sia stata precoce e distruttiva.

Era forse “indecentina” la mia mente? Lo ero io? Ero seduta sul muretto quella volta, avevo credo nove anni, ero felice di essere lì, sotto il sole, felice di essere… sapevo di essere. Ero lì con la sensazione di potenza e gioia pura che si può provare solo da bambini, da BAMBINI e non da quella che mi credevano Loro.
Non so se sia stata mai bambina io, ma bambina veramente, con le treccine, le gote rosse, la mano in quella forte di papà. Non lo so. Ed ero lì, con i miei calzoncini… di che colore erano? Forse bianchi, forse verdi. Ero seduta in alto, con le gambe larghe, felice di essere arrivata lassù, speravo che tutti mi guardassero e pensassero “che brava”. E in effetti qualcuno mi guardava. Loro mi guardavano. I sorrisi che prima c’erano poi d’un tratto non c’erano più e gli occhi terrorizzati di lei fissati tra le mie gambe hanno preceduto il movimento delle sue labbra che strette, quasi una fessura, dicevano: “chiudi le gambe, chiudi le gambe”! Ed eccomi giù da quel muretto, e la potenza è finita, e sono di nuovo l’indecentina che voleva portare il costume da bagno coi laccetti ai fianchi a otto anni e questo costume non sarà un pò indecentino?
E poi me lo compri lo stesso, e io felice, felice, felice, e non so cosa pensi quando mi guardi, non so che pensi del mio seno che esce fuori a otto anni, prima che io sappia perfino cos’è.
E così d’improvviso il muretto non c’è più e io sono dietro la siepe con lei che affannosamente mi fa cambiare i calzoncini dove ormai la macchia rossa è diventata troppo larga e questi altri sì che erano verdi ed ero quasi contenta perché erano uguali a quelli dei miei fratelli, anche se loro sono tutti più bassi di me, tutti più piccoli, piccoli loro lo sono davvero, io no: io sono grande. E così grande da non ricordare se sono mai stata piccola, da non accorgermi che altrettanto affannosamente lei ha cacciato i calzoncini bianchi in qualche borsa, anche se adesso non sono più bianchi e non ricordo se li ho più visti quei calzoncini.

Veronica pensa che ora sta sempre zitta, il suono della sua voce a volte le sembra quasi estraneo, quando gli altri gridano lei sente l’urlo dentro il petto, ma non esce, le scoppia dentro la cassa toracica, le dilata il petto, si schianta contro le sue ossa, ma non esce.

A volte penso che riempio tanto la pancia proprio per non farlo uscire, per schiacciarlo dentro più che posso, per sopprimerlo, farlo soffrire. Per aiutarlo a uccidermi.