Il guardiano della porta

Sono in ritardo, l’appuntamento è alle 19.30 alla Cabina (noto ritrovo dei fighetti della cosiddetta Torino bene), mi chiedo ancora perché io abbia accettato, ho sempre detestato le partite di Torneo, ci sono sempre tensioni e molto spesso finiscono in rissa ma non potevo dire di no, hanno bisogno di me, hanno bisogno del portiere. Mentre guido mi ritornano in mente le prime partite di calcio a Corio nel campo da tennis abbandonato coperto di ghiaia di fianco a casa. Ero il più piccolo e si sa che il più piccolo se vuole giocare sta in porta, soprattutto se non ha un piede sopraffino come me, ma ero portato per il ruolo, ho sempre avuto doti acrobatiche e il coraggio necessario. Da subito i più grandi mi contendevano per farmi stare lì, da solo in mezzo ai pali per impedire agli avversari di gioire per un gol ma soprattutto per impedirgli di vincere. Il ruolo che mi ha scelto è l’anti calcio, in questo sport si gioisce per fare gol mentre io godo nell’evitarlo: per un salvataggio sulla linea oppure quando ipnotizzo un attaccante che si presenta solo davanti a me e pensa che appoggiare la palla in rete sia soltanto una pratica. Ma non è così, ci sono io a sbarrargli la strada. Queste parate sono la mia specialità, ho la spregiudicatezza e il coraggio sufficienti anche mettendo a rischio la mia incolumità. Ricordo ancora quando un attaccante mi ha rotto un dente prendendo a calci la mia faccia non trovando il pallone che gli avevo fatto sparire dai piedi. Mi è costato caro, ma ne valeva la pena.

Sono arrivato in tempo, ci sono tutti, mi ringraziano perché gli tappo il buco e non lesinano frasi adulatorie sulle mie capacità, non m’incantano, è il solito rito che premette che sarà una partita fondamentale per il loro torneo.

Arriviamo al campo, è a Nichelino, è adiacente a una Chiesa di fronte al mobilificio Granato. E’ novembre, fa freddo, il campo è in terra, male illuminato, una rete separa una porta da una piccola tribuna formata da qualche panchina. Gli spogliatoi sono spartani, è già tanto che ci sia un appendiabiti, mattonelle marroni per terra e docce rotte e sporche. Non ho un rito particolare prima delle partite. Mi dà la carica pensare alle parate dei miei idoli, Schmeichel, Preudhomme, Pfaff, Marchegiani… Indosso la maglia da portiere del Toro con il numero 1. L’arbitro entra nello spogliatoio, fa l’appello e fa il solito discorsetto sul fair play, si sa che non conta nulla, appena si entra in campo ci si dimentica di tutto e si pensa solo a prevalere sull’avversario.

Uscendo dagli spogliatoi incrocio gli avversari, non hanno le facce pulite come le nostre che arriviamo dai quartieri ricchi della città, è gente di strada. A sostenerli c’è un gruppo sparuto di tifosi, proprio come dei veri ultras con i volti nascosti dalle sciarpe e dai cappucci delle felpe. A bordo campo hanno le loro fidanzate a sostenerli, un gruppetto di ragazzine che li incita a spaccare le gambe a questi cabinotti figli di papà. La premessa non è delle migliori, anzi. Perdiamo il sorteggio, il primo tempo lo gioco con i loro tifosi alle spalle, solo una rete mi divide da loro, a inizio partita accendono i fumogeni per poi lanciarli in campo a poca distanza dai miei piedi. Li guardo, li ammiro, noi non abbiamo nessuno che ci supporti, men che meno le nostre fidanzate che considerano il calcio uno sport noioso e per plebei, appunto.

Inizia la partita, cerco di individuare subito l’avversario più pericoloso, mentre un tifoso cerca di distrarmi offrendomi droga nel caso sia disposto a far passare qualche gol. Eccolo il più pericoloso, è il numero 9, si vede che gioca in una squadra, ha un buon fisico e i movimenti giusti. Il nostro difensore che l’ha preso in consegna avrà una serata dura ed io con lui. Entro in clima partita, la prima parata è un’uscita alta facile in largo anticipo sul numero 9, appena afferrata la palla gli rivolgo qualche complimento per cercare di allentare la sua concentrazione e renderlo meno pericoloso. Non funziona, figuriamoci se un figlio di papà lo può fregare con questo trucchetto da principiante. La partita procede per un quarto d’ora senza particolari pericoli, noi siamo assolutamente inconcludenti là davanti, si gioca prevalentemente nella nostra metà campo. Improvvisamente la partita s’infiamma, prendono il sopravvento, faccio un bella parata per prendere un tiro rasoterra, riesco a mettere la palla in calcio d’angolo. Nel successivo corner esco di pugno per allontanare la palla dalla mia area. Durante l’intervento qualcosa mi colpisce al costato, cado male sbilanciato dal colpo ricevuto. L’arbitro fischia il fallo, alzo gli occhi e vedo il numero 9 che mi guarda con un sorriso beffardo, cerca di intimidirmi, un portiere che ha paura è un portiere inutile.

Loro giocano meglio, sono più squadra ed io cerco di rinfrancare i miei urlandogli di non mollare, di lottare su ogni pallone e di metterci il cuore. Non serve, arriva un cross in mezzo, il mio difensore perde la marcatura del numero 9, esco di nuovo di pugno come l’azione del calcio d’angolo, sbaglio il tempo e lui appoggia comodamente la palla in rete. E’ gol, siamo sotto per colpa mia. Solo i portieri sanno qual è il peso che si ha sulle spalle dopo una situazione simile, può essere l’inizio della fine, il contraccolpo psicologico può compromettere l’intera partita e il suo esito. Mentre raccolgo la palla in rete, il tifoso che poco prima mi offriva l’hashish mi rivolge la frase: “Bravo portiere, continua così”. Sono solo in mezzo agli avversari esultanti, i compagni che mi guardano in silenzio, i tifosi avversari che festeggiano.

Palla al centro, si ricomincia, mi rianimo, cerco di dare coraggio ai miei, ma siamo sotto shock. Neanche passato un minuto mi ritrovo di nuovo il numero 9 con palla al piede solo davanti a me. Tira a mezz’aria alla mia destra, con un riflesso felino ci arrivo, ho fatto il miracolo, siamo ancora a galla, urlo al cielo stringendo i pugni dandomi la carica. Le pacche e i complimenti dei compagni arrivano puntuali, sanno che la partita sarebbe stata chiusa fosse entrato anche quel gol, cerco lo sguardo del numero 9 mentre il pubblico mi insulta, non lo trovo, mi evita.

La squadra, rinfrancata, incomincia a giocare a calcio, prendiamo fiducia e in qualche modo riusciamo a pareggiare alla fine del primo tempo. Un tiro, un gol, percentuale del 100%. All’intervallo la partita è pari, non lo meritiamo ma va bene così.

La partita ricomincia con loro all’attacco, un altro cross alto per la testa del numero 9, questa volta esco deciso urlando: – mia! – con un tono che fa capire che nulla mi può fermare, mentre salto mi proteggo con il ginocchio e stavolta non sono io a subire il colpo al costato, non c’è fallo, il portiere si può proteggere durante l’uscita. Lo aiuto a rialzarsi, lui non proferisce parola ma dai suoi occhi capisco che ho ottenuto finalmente il suo rispetto, mi riconosce come avversario. Non serve a molto, poco dopo vengo trafitto dal gol del 2 a 1, questa volta sono in due, non posso farci niente. Loro improvvisamente smettono di giocare, difendono il risultato, rimango di conseguenza inoperoso anch’io. Stiamo spingendo con la forza dei nervi alla ricerca del pareggio, all’improvviso in una mischia nella loro area l’arbitro fischia un rigore a nostro favore, non chiedetemene il motivo, non vedo nulla da questa distanza. Pareggiamo. Mi sembra incredibile, manca una manciata di minuti e siamo sul 2 a 2. Il loro pubblico non ci sta, non può accettare che questi figli di papà escano imbattuti dal loro campo. Una fidanzata incomincia a insultare uno dei nostri, lui non ci sta e le risponde, vi faccio immaginare le scintille in campo tra lui e il fidanzato di questa mentre la gallina incita il suo uomo a difendere il suo onore. Io sono tranquillo, dietro di me c’è il muro, nessuno che mi possa deconcentrare, devo solo pensare a non farmi più fare gol.

Manca poco, pochi secondi alla fine di questa partita ma ci complichiamo le cose, facciamo fallo al limite della nostra area, proprio allo scadere del tempo. Dispongo la barriera per coprire la parte di porta alla mia destra, l’area è affollata, sarebbe sufficiente una piccola deviazione per provocare l’irreparabile, l’arbitro fischia, vedo partire il pallone, è un tiro potente a mezz’aria alla mia sinistra, mi distendo e con la punta delle dita ci arrivo, riesco a deviarla fuori dal campo! Esulto come se avessi segnato un gol, i compagni mi abbracciano, l’arbitro cessa le ostilità, è finita!!! Tra gli insulti della gente raggiungiamo gli spogliatoi, siamo felici come se avessimo vinto la partita, sotto le docce i miei compagni ancora carichi di adrenalina ripercorrono la gara con la memoria aggiungendo commenti alle azioni che li hanno visti protagonisti; io li ascolto seduto su di una panca, sono il portiere, sono solo, in fondo delle partite di che cosa ci si ricorda? Dei gol.

Il cane randagio è morto

Sono così.. vorrei cambiare… Ma non posso, sono così, prendere o lasciare.

Questo è stato un weekend di riflessione e come spesso accade mi sono sentito solo in mezzo alla gente, non sono l’unico a cui accade ma poco m’importa.
Tutto inizia da una cena da Enk, amico storico, lui è la classica persona che dice da sempre che vuole una relazione stabile con una ragazza ma poi se le scopa tutte… credo che ognuno di voi possa essersi fatto un’idea del soggetto. E’ alto, belloccio, curato e benestante, ha una bella casa in una zona prestigiosa di Torino, insomma uno scapolo d’oro. Unico difetto: un fare da commerciale.

Siamo a cena in 5, due fratelli e una fidanzata dei due, Enk ed io. La serata scorre veloce tra discorsi futili, sullo stile Hilary Blasi, Francesco Totti e Fabrizio Corona, vino a fiumi e leccornie preparate dal padrone di casa con cura. Osservo i due fidanzati con lo snobismo che mi contraddistingue e penso tra me e me che sono persone “semplici” ma felici… lei è una bella ragazza ma come direbbe Venditti un frutto periferico, lui arriva da un paese di montagna dell’alta Val Susa, sono lavoratori, onesti e non si fanno mille paranoie per come appaiono in pubblico e se devono dire una grezzata la dicono senza tante storie; non mi soffermo sull’aspetto fisico di lei perché è uno schianto ma l’occhio da predatore viene meno di fronte alle fidanzate di conoscenti ed amici.

Le intenzioni di Enk e del fratello “spaiato” sono bellicose per il proseguimento della notte: andare a ballare in discoteca e “sdelirare”, ne sono al corrente sin dall’inizio e assolutamente d’accordo ma mi sento strano, una strana nuova sensazione mi pervade.

Siamo rimasti in tre, la coppia è andata a casa, siamo al guardaroba, non c’è tanta gente, una ragazza che lavora nel locale ci ricorda che è San Valentino e ci da un numero a cui corrisponde una ragazza, me lo infilo in tasca, ho sempre detestato questo genere di giochi, soltanto gli sfigati hanno bisogno di queste cose per conoscere qualcuno. Sto aspettando che la guardarobiera prenda il mio giubbotto e un tipo mentre si sta togliendo la giacca mi urta tre volte, mi accorgo di essere nervoso, vorrei prendere una stampella, spaccargliela in faccia e chiedergli se non sia in grado di spogliarsi senza rompermi i coglioni. Mi controllo e finalmente entriamo, mi accorgo subito che non solo è San Valentino ma pure Carnevale, mi si stagliano di fronte le sagome di numerose persone vestite nei modi più assurdi su cui per il momento non mi soffermo: voglio un drink, Vodka Redbull ovviamente.

La musica incomincia a scaldarci, Enk si toglie la maglia e rimane in camicia, la porta sbottonata, molto sbottonata per far intravede il petto, salvo poi chiedermi tutto il tempo se non sia eccessivo, sorseggio il mio cocktail, incomincio a guardarmi intorno e le mie gambe incominciano a muoversi a tempo, nel frattempo David cerca di attaccare bottone con tutte le persone di sesso femminile che gli si presentano di fronte, non riesco a non farglielo notare e lui si fa una risata.

Il nervosismo non mi abbandona, vedo conigliette che sembrano bugs bunny, arpie travestite da gattine e maschietti in calore che cercano di mettere il loro uccello in qualsiasi buco. In questo desolante panorama attirano la mia attenzione un paio di ragazze, che sono esattamente l’una il contrario dell’altra.

La prima avrà 25 anni al massimo, alta, gran fisico, magra con il seno prosperoso, ha una minigonna giro passera con dei collant spessi, una maglietta con uno scollo a barca che fa capire ma non vedere, il viso fresco, giovane, l’espressione di chi ha tutta la vita davanti, è insieme a 5 amiche tra cui lei è la più bella. Ha l’aria di chi si annoia, il nostri sguardi si incrociano diverse volte, è seduta, maliziosamente si sfiora il decolté… può far uscire di testa chiunque lì dentro, le lancio uno sguardo di quelli penetranti, le sorrido e da quel momento in poi la ignoro per tutta la serata.

Mi accorgo di una ragazza bruna, non più giovanissima, i segni dell’età sul volto la tradiscono, non è molto alta, indossa dei jeans che porta dentro a degli stivali da motociclista, una maglia nera attillata che rivela qualche rotolo e di conseguenza qualche chilo di troppo. E’ in una compagnia di una decina di persone, ma anche lei non sembra divertirsi, balla quasi svogliatamente ma mi guarda in modo insistente. Non cerca di colpirmi con qualche movimento sexy, mi guarda e basta.

Non sono spensierato, mille pensieri mi balenano in testa, mi sento fuori luogo come un pesce fuor d’acqua, nel frattempo Enk e David si danno da fare, ballano, si scatenano, io no… non ce la faccio, è strano per me, quella che sto vivendo l’ho sempre considerata una di quelle serate ideali, spensieratezza, alcool , musica e belle donne da guardare ma non toccare. Mi siedo, dopo pochi istanti mi si siede accanto la seconda ragazza, mi è vicina, molto vicina, non mi parla, non le parlo. Due maschietti con i numeri di cui ho parlato all’inizio l’avvicinano con la scusa di vedere il suo, lei lo prende e lo verifica, non coincide, istintivamente mi frugo nelle tasche, trovo il mio talloncino e lo butto per terra con un gesto teatrale, a quel punto lei mi chiede che numero fosse il mio, non coincide con quello che ha lei in mano, non riesco a dirle null’altro, lei lo stesso, nel frastuono della musica della discoteca tra di noi si alza un silenzio che urla, lei sente che io non sono tranquillo e io percepisco il suo malessere, stiamo comunicando seppur senza parlarci.

Improvvisamente la musica smette di suonare, il dj annuncia uno spettacolo di danza del ventre, una culona prende a ballare, si muove bene, è sexy e veramente brava… mi volto verso la bruna e le dico candidamente che se avessi incontrato per strada la ballerina non l’avrei degnata di uno sguardo. Mi guarda male ma ha capito perfettamente cosa intendo, forse è confortata dal fatto che nonostante abbia fatto quell’affermazione io stia parlando con lei ma non ce la faccio più, la saluto e le auguro buona serata, faccio lo stesso con i miei amici. E’ ora di andarsene.

Sono in macchina, i pensieri si rincorrono, dalla vita voglio tutto, ma non posso avere tutto, si devono fare delle scelte, in questo lo scorrere dei giorni è democratico con tutti gli esseri viventi della terra, tutti fanno delle scelte e tutti ne pagano le conseguenze o traggono dei benefici per aver fatto quelle giuste. Una cosa ho capito: non posso pretendere che la mia passionalità sparisca, che i miei conflitti interni finiscano da un momento all’altro, mi lacereranno sempre dentro, la mia sensibilità mi farà sentire tutto come se fosse la prima volta e tutto amplificato, ma adesso lo so! E invece di disperarmi per questo ne sono felice.

Tra vivere ed esistere c’è una bella differenza. E io vivo.