Storia di Neve – Mauro Corona

Voglio consigliare questo libro di Mauro Corona. Parla di una bambina di nome Neve che nasce e vive in un paesino nella valle del Vajont, ma più ancora è la storia di suo padre, uomo avido, spietato e accecato dai soldi e dei mezzi che usa per farne sempre di più, soprattutto attraverso la figlia.

E’ un libro che intenerisce, sconvolge, spaventa e che nonostante le oltre 800 pagine vola via leggero e veloce. Il desiderio andando avanti nella lettura è che non finisca mai, a ogni pagina accade qualcosa di nuovo e inaspettato, il linguaggio è fortemente radicato nel luogo e dà al lettore la possibilità di sentirsi lì con i personaggi, di vedere le loro case, di ammirare il gelo invernale come i colori dell’estate. Ci sono storie familiari, storie di matti del paese, storie di lavoratori e storie di bambini. Un libro che può prendere mille direzioni.

Nel video, Mauro Corona parla del libro.

Solo

Ora che sono dentro questo locale mi chiedo perché io sia arrivato fin qui, a quale scopo. La scommessa è durata lo spazio di un attimo. Il tempo di dirsi: il primo che ci riesce vince. Ma poi cosa vince? Questo non ce lo siamo detto. E le scommesse non valgono se non si decide il premio. Forse il premio è la possibile preda, tra noi non c’è stato bisogno di spiegarlo, ma dev’essere una preda difficile, una che non sia strafatta o ubriaca, o che palesemente non veda l’ora di trovare uno che se la faccia senza complimenti, senza parole. Quella infatti non vale. Meglio una complicata, una che quando la guardi giri gli occhi da un’altra parte e che alle prime domande nemmeno ti risponda. Ancora meglio, che sia accompagnata da qualcuno: marito, fidanzato, amico intimo che ne so. Deve arrivare ad avere il dubbio di quello che sta perdendo e cosa succede se lo perde. Certi treni passano una volta sola, è questo che deve pensare. Poi ci penserò io al resto. Abbiamo un cenno concordato che il vincitore farà all’altro, il primo che lo fa può uscire col suo premio senza dovere spiegazioni, senza parole inutili. Poi ai racconti eventuali ci penseremo domani. Lui fa il gentiluomo però, dovesse vincere sono sicuro che non mi racconterebbe nulla, nemmeno com’è “sottopanni”, come si dice a Roma. Ci passo fin troppo tempo in quella sporca città, in fondo però mi piace, vado lì e faccio capire a tutti quanto sia meglio di loro, con quell’accento sguaiato che non li puoi mai prendere sul serio. Però lì ci sono i soldi, e tanti anche. Ma spettano a me. E loro lo sanno che mi spettano, quindi non battono ciglio quando me li devono dare. Non faccio neppure tanta fatica. Qui dentro invece mi sembra di fare davvero molta fatica, c’è caldo, questo bicchiere è già vuoto, ne chiedo un altro così mi avvicino al bancone dove ci sono quelle più annoiate, queste bisogna capire se vanno bene, se sono lì perché nessuno le invita o se sono solo in attesa (finta) di qualcuno che sta tardando. Non ci vuole molto a capirlo. Ma poi, sarà facile, già lo so. Lui è lì che si muove, lo scorgo appena in questo misto di buio e luci violente e improvvise. La musica è alta, troppo alta, c’è chi si dimena stupidamente come se non avesse un futuro. Io un futuro ce l’ho e ho avuto finora le palle per costruirmelo. E che nessuno mi venga a dire il contrario, lo sanno tutti che lì la baracca la tengo io, è chiaro, e chi non si adegua può anche andarsene… alle mie condizioni ovviamente. Faccio tutto alle mie condizioni. Le persone marciano a dovere, anche se ogni tanto è necessario riprenderle per bene e per quanto sia una gran rottura di coglioni lo devo fare. Poi lo so che alle spalle me ne dicono di ogni tipo. Uno l’ho beccato così. Nemmeno tra di loro si sanno proteggere, che massa di inetti. Basta schioccare le dita che qualche pecorella esce dal gregge e mi viene ad informare per bene di quel che accade. E lì a quel punto è compito mio semmai essere anche magnanimo e far rientrare l’emergenza. L’importante è che sia passata una bella dose di strizza nel culo di questa gente, perché devono sapere che non scherzo e che la prossima volta potrebbe essere l’ultima. Guardalo, ora sta ballando, chissà che crede di fare così, è un metodo vecchio, anche se spesso sembra che alle ragazze piaccia. Le guarda in un modo che le inchioda dove stanno, le fa passare dalla paura al dubbio all’eccitazione in un attimo. Poi però le abbandona. Le lascia lì a chiedersi se non se lo siano sognato. Io lo so che non se lo sono immaginato, ma loro no, è quello il dubbio più grande. Anche se non capisco che gusto ci sia venire in un locale ad accendere qui e là qualche fuoco e poi lasciarlo bruciare in solitudine andandosene a dormire. Io se vinco prendo quello che mi spetta. E il fuoco lo consumo fino alla fine, finché non rimane nemmeno la brace. A scuola ero uno che piaceva, spesso mi bastava un sorriso per portarmele a casa, ero un leader nato, questo lo so non solo perché me lo hanno detto. Uno se lo sente dentro quando è così. Poi se a volte posso sembrare più duro del dovuto è solo il ruolo che me lo richiede che cazzo, lo so anche io che se muore tuo padre vorresti startene a casa per un pò. Però il dovere chiama e io devo richiamare. La concessione se viene fatta va anche apprezzata, ma io tanti grazie non ne sento. Guardalo lì, continua ballare, sembra che non voglia fermarsi su nessuna, ma se fa così non ha vita lunga qui dentro. Anzi al contrario, avrà vita fin troppo lunga perché continuerà a girare come una trottola senza concludere niente, mentre io starò già dormendo dopo la doppietta. Era il mio uomo di fiducia quando l’ho preso lì dentro. Tanto di fiducia che qualcuno ha storto il naso chiedendosi perché. Perché? Nessuno aveva il diritto di saperlo, quel che decido io si fa e lui per me andava bene. Però pensavo che restasse docile e imparasse le cose come le dicevo io, invece fa di testa sua e certe volte m’incazzo proprio anche se sembra che non gli faccia effetto. Con lui non fa effetto, non rientra nei ranghi come gli altri, in effetti non è uno che che si ritrae come vorrei, non sta nelle righe anche se ha fatto sto cazzo di militare di cui si vanta tanto. Vuole fare come dice lui. Ma non ha capito che deve fare come voglio io. Ma ci riuscirò prima o poi a fargli cambiare idea. Questa sembra adatta, mi guarda di sfuggita come se volesse evitarmi, ma io lo so che non aspetta altro che mi avvicini.

Le donne son proprio troie anche se vogliono sempre dimostrare il contrario. Nessuna esclusa, proprio no. Basta poco a volte e te lo dimostrano subito. Qualcuna invece è un pò più resistente, bisogna oliare meglio, ma io pazienza ne ho da vendere. Ho sempre il polso della situazione, so sempre di sembrare sicuro di tutto quello che sto facendo. Se non ti mostri sicuro come fai a dare l’esempio? E non c’è nemmeno bisogno di fare la voce grossa, bastano i gesti e lo sguardo. Con lo sguardo faccio capire molte cose. Fisso dritto negli occhi, non c’è bisogno di altro molto spesso.
Sembra che stia cedendo, adesso è il momento di sferrare l’attacco finale, deve capire chi decide qui dentro. Lo sanno sempre le persone che sono io a decidere. Lui è sempre lì che si muove, ne ha due o tre attorno, crede di aver in pugno la situazione, ma non sa che io invece ho già concluso. In fondo poco importa che la notte non riesca a dormire, che mi mangi le mani dall’ansia e che la mia pelle sia grigia come quella di un vecchio e che lei la maggior parte delle sere si giri dall’altra parte come se non ci fossi. Poco importa che il mio entusiasmo a volte sia solo mio e che c’è chi mi segue di malavoglia pensando che sia un fatto ben celato. In fondo conta il risultato e io risultati ne porto. Che m’importa pure di questa stronza che chissà cosa si è messa in testa. E che m’importa del cenno, della scommessa. Ma non deve sapere che faccio come lui, che volto le spalle e vado via senza portarmi il trofeo a casa. Ora non lo vedo più, è il momento migliore. Ti saluto amico, me ne vado da solo. Da silenzioso vincitore.

Il cane randagio è morto

Sono così.. vorrei cambiare… Ma non posso, sono così, prendere o lasciare.

Questo è stato un weekend di riflessione e come spesso accade mi sono sentito solo in mezzo alla gente, non sono l’unico a cui accade ma poco m’importa.
Tutto inizia da una cena da Enk, amico storico, lui è la classica persona che dice da sempre che vuole una relazione stabile con una ragazza ma poi se le scopa tutte… credo che ognuno di voi possa essersi fatto un’idea del soggetto. E’ alto, belloccio, curato e benestante, ha una bella casa in una zona prestigiosa di Torino, insomma uno scapolo d’oro. Unico difetto: un fare da commerciale.

Siamo a cena in 5, due fratelli e una fidanzata dei due, Enk ed io. La serata scorre veloce tra discorsi futili, sullo stile Hilary Blasi, Francesco Totti e Fabrizio Corona, vino a fiumi e leccornie preparate dal padrone di casa con cura. Osservo i due fidanzati con lo snobismo che mi contraddistingue e penso tra me e me che sono persone “semplici” ma felici… lei è una bella ragazza ma come direbbe Venditti un frutto periferico, lui arriva da un paese di montagna dell’alta Val Susa, sono lavoratori, onesti e non si fanno mille paranoie per come appaiono in pubblico e se devono dire una grezzata la dicono senza tante storie; non mi soffermo sull’aspetto fisico di lei perché è uno schianto ma l’occhio da predatore viene meno di fronte alle fidanzate di conoscenti ed amici.

Le intenzioni di Enk e del fratello “spaiato” sono bellicose per il proseguimento della notte: andare a ballare in discoteca e “sdelirare”, ne sono al corrente sin dall’inizio e assolutamente d’accordo ma mi sento strano, una strana nuova sensazione mi pervade.

Siamo rimasti in tre, la coppia è andata a casa, siamo al guardaroba, non c’è tanta gente, una ragazza che lavora nel locale ci ricorda che è San Valentino e ci da un numero a cui corrisponde una ragazza, me lo infilo in tasca, ho sempre detestato questo genere di giochi, soltanto gli sfigati hanno bisogno di queste cose per conoscere qualcuno. Sto aspettando che la guardarobiera prenda il mio giubbotto e un tipo mentre si sta togliendo la giacca mi urta tre volte, mi accorgo di essere nervoso, vorrei prendere una stampella, spaccargliela in faccia e chiedergli se non sia in grado di spogliarsi senza rompermi i coglioni. Mi controllo e finalmente entriamo, mi accorgo subito che non solo è San Valentino ma pure Carnevale, mi si stagliano di fronte le sagome di numerose persone vestite nei modi più assurdi su cui per il momento non mi soffermo: voglio un drink, Vodka Redbull ovviamente.

La musica incomincia a scaldarci, Enk si toglie la maglia e rimane in camicia, la porta sbottonata, molto sbottonata per far intravede il petto, salvo poi chiedermi tutto il tempo se non sia eccessivo, sorseggio il mio cocktail, incomincio a guardarmi intorno e le mie gambe incominciano a muoversi a tempo, nel frattempo David cerca di attaccare bottone con tutte le persone di sesso femminile che gli si presentano di fronte, non riesco a non farglielo notare e lui si fa una risata.

Il nervosismo non mi abbandona, vedo conigliette che sembrano bugs bunny, arpie travestite da gattine e maschietti in calore che cercano di mettere il loro uccello in qualsiasi buco. In questo desolante panorama attirano la mia attenzione un paio di ragazze, che sono esattamente l’una il contrario dell’altra.

La prima avrà 25 anni al massimo, alta, gran fisico, magra con il seno prosperoso, ha una minigonna giro passera con dei collant spessi, una maglietta con uno scollo a barca che fa capire ma non vedere, il viso fresco, giovane, l’espressione di chi ha tutta la vita davanti, è insieme a 5 amiche tra cui lei è la più bella. Ha l’aria di chi si annoia, il nostri sguardi si incrociano diverse volte, è seduta, maliziosamente si sfiora il decolté… può far uscire di testa chiunque lì dentro, le lancio uno sguardo di quelli penetranti, le sorrido e da quel momento in poi la ignoro per tutta la serata.

Mi accorgo di una ragazza bruna, non più giovanissima, i segni dell’età sul volto la tradiscono, non è molto alta, indossa dei jeans che porta dentro a degli stivali da motociclista, una maglia nera attillata che rivela qualche rotolo e di conseguenza qualche chilo di troppo. E’ in una compagnia di una decina di persone, ma anche lei non sembra divertirsi, balla quasi svogliatamente ma mi guarda in modo insistente. Non cerca di colpirmi con qualche movimento sexy, mi guarda e basta.

Non sono spensierato, mille pensieri mi balenano in testa, mi sento fuori luogo come un pesce fuor d’acqua, nel frattempo Enk e David si danno da fare, ballano, si scatenano, io no… non ce la faccio, è strano per me, quella che sto vivendo l’ho sempre considerata una di quelle serate ideali, spensieratezza, alcool , musica e belle donne da guardare ma non toccare. Mi siedo, dopo pochi istanti mi si siede accanto la seconda ragazza, mi è vicina, molto vicina, non mi parla, non le parlo. Due maschietti con i numeri di cui ho parlato all’inizio l’avvicinano con la scusa di vedere il suo, lei lo prende e lo verifica, non coincide, istintivamente mi frugo nelle tasche, trovo il mio talloncino e lo butto per terra con un gesto teatrale, a quel punto lei mi chiede che numero fosse il mio, non coincide con quello che ha lei in mano, non riesco a dirle null’altro, lei lo stesso, nel frastuono della musica della discoteca tra di noi si alza un silenzio che urla, lei sente che io non sono tranquillo e io percepisco il suo malessere, stiamo comunicando seppur senza parlarci.

Improvvisamente la musica smette di suonare, il dj annuncia uno spettacolo di danza del ventre, una culona prende a ballare, si muove bene, è sexy e veramente brava… mi volto verso la bruna e le dico candidamente che se avessi incontrato per strada la ballerina non l’avrei degnata di uno sguardo. Mi guarda male ma ha capito perfettamente cosa intendo, forse è confortata dal fatto che nonostante abbia fatto quell’affermazione io stia parlando con lei ma non ce la faccio più, la saluto e le auguro buona serata, faccio lo stesso con i miei amici. E’ ora di andarsene.

Sono in macchina, i pensieri si rincorrono, dalla vita voglio tutto, ma non posso avere tutto, si devono fare delle scelte, in questo lo scorrere dei giorni è democratico con tutti gli esseri viventi della terra, tutti fanno delle scelte e tutti ne pagano le conseguenze o traggono dei benefici per aver fatto quelle giuste. Una cosa ho capito: non posso pretendere che la mia passionalità sparisca, che i miei conflitti interni finiscano da un momento all’altro, mi lacereranno sempre dentro, la mia sensibilità mi farà sentire tutto come se fosse la prima volta e tutto amplificato, ma adesso lo so! E invece di disperarmi per questo ne sono felice.

Tra vivere ed esistere c’è una bella differenza. E io vivo.

Veronica non urla

Veronica fa la segretaria e pensa che, se le segretarie esistono, vuol dire che esistono persone che si sentono tali, che si sentono di obbedire a tutto, dire sempre sì, lo faccio subito, dimenticare se stesse, diventare dei robot esecutori.

Io non vorrei essere così, ma ho una gabbia fuori e invece dentro mi sento solare, con una voglia pazza di ballare, di scherzare giocare cantare con tutti e invece ho fuori una corazza d’acciaio piena di bulloni che non riesco a svitare, tutti arrugginiti, mi costringono a pensare le mie cosce debordanti il sedile della sedia, oppresse, strette tra abiti che non mi appartengono.

Veronica pensa che dopo la parentesi universitaria ha voluto tornare a sentirsi una nullità, a sentirsi nessuno. Pensa di aver voluto tornare a sparire, a non nutrirsi più di complimenti sul suo operato, se non su cose che giudica ridicole.

Il mio cervello si è zittito? Tutto si è zittito in me, non mi esce più la voce. Quando ho la pancia piena, che scoppia, mi sento perdente, ma almeno mi conosco, torno a una sensazione nota. Tutto deve essere pieno perché io finga di stare bene, la dispensa, il frigo, la casa, l’armadio, la borsa, tutto pieno. Ma è un “bene” che mi schiavizza.

Veronica si ricorda di un paio di pantaloncini che metteva a 13 anni, bianchi corti con delle figure stilizzate di donne disegnate sopra, come dei figurini per la moda. Le piacevano tantissimo, ma sua madre una volta le aveva detto che quei pantaloncini erano “indecentini”. Lo aveva detto mentre li stirava, con la testa bassa: “a tuo padre non piacciono tanto questi pantaloncini… non sono un po’ indecentini”? Lo aveva detto anche quando aveva otto anni e aveva già un po’ di seno appena accennato, allora metteva un costume a due pezzi. Ma anche quello era indecentino.Veronica pensa che la sessualizzazione alla quale è stata sottoposta da sua madre sia stata precoce. Sia stata precoce e distruttiva.

Era forse “indecentina” la mia mente? Lo ero io? Ero seduta sul muretto quella volta, avevo credo nove anni, ero felice di essere lì, sotto il sole, felice di essere… sapevo di essere. Ero lì con la sensazione di potenza e gioia pura che si può provare solo da bambini, da BAMBINI e non da quella che mi credevano Loro.
Non so se sia stata mai bambina io, ma bambina veramente, con le treccine, le gote rosse, la mano in quella forte di papà. Non lo so. Ed ero lì, con i miei calzoncini… di che colore erano? Forse bianchi, forse verdi. Ero seduta in alto, con le gambe larghe, felice di essere arrivata lassù, speravo che tutti mi guardassero e pensassero “che brava”. E in effetti qualcuno mi guardava. Loro mi guardavano. I sorrisi che prima c’erano poi d’un tratto non c’erano più e gli occhi terrorizzati di lei fissati tra le mie gambe hanno preceduto il movimento delle sue labbra che strette, quasi una fessura, dicevano: “chiudi le gambe, chiudi le gambe”! Ed eccomi giù da quel muretto, e la potenza è finita, e sono di nuovo l’indecentina che voleva portare il costume da bagno coi laccetti ai fianchi a otto anni e questo costume non sarà un pò indecentino?
E poi me lo compri lo stesso, e io felice, felice, felice, e non so cosa pensi quando mi guardi, non so che pensi del mio seno che esce fuori a otto anni, prima che io sappia perfino cos’è.
E così d’improvviso il muretto non c’è più e io sono dietro la siepe con lei che affannosamente mi fa cambiare i calzoncini dove ormai la macchia rossa è diventata troppo larga e questi altri sì che erano verdi ed ero quasi contenta perché erano uguali a quelli dei miei fratelli, anche se loro sono tutti più bassi di me, tutti più piccoli, piccoli loro lo sono davvero, io no: io sono grande. E così grande da non ricordare se sono mai stata piccola, da non accorgermi che altrettanto affannosamente lei ha cacciato i calzoncini bianchi in qualche borsa, anche se adesso non sono più bianchi e non ricordo se li ho più visti quei calzoncini.

Veronica pensa che ora sta sempre zitta, il suono della sua voce a volte le sembra quasi estraneo, quando gli altri gridano lei sente l’urlo dentro il petto, ma non esce, le scoppia dentro la cassa toracica, le dilata il petto, si schianta contro le sue ossa, ma non esce.

A volte penso che riempio tanto la pancia proprio per non farlo uscire, per schiacciarlo dentro più che posso, per sopprimerlo, farlo soffrire. Per aiutarlo a uccidermi.